Ore 4.40 del mattino, suona la sveglia.
Ancora appannato ti lavi e ti vesti in velocità. Bevi un caffè veloce e ti metti alla guida per raggiungere il tuo ospedale. Oggi ti tocca il turno di mattina.
A quell’ora del mattino sei solo. Ti senti solo. Nel percorso, incontri solo poche auto in strada, ma nessuno passeggia per le vie. C’è ancora buio pesto. Ascolti un pò di musica, è ancora troppo presto per le notizie del radiogiornale. Cambi stazione di frequente: “Questa fa troppo chiasso!”, “In questo modo mi addormento!”…
Parcheggi e scendi dall’auto. Sta albeggiando. Guardi in direzione dell’Ospedale, un edificio dalle forme solide e lineari. Giornalmente in quell’edificio, perdi una parte di te. Soffri solo all’idea di ciò che oggi potrebbe accadere.
Attorno a te, visi pallidi e stanchi, accennano un timido saluto. Indossi l’uniforme e guardando lo smartphone, ti dirigi nella direzione del reparto. Non hai bisogno nemmeno più di guardare dinnanzi a te. Conosci quel percorso a memoria. E sai che a quell’ora, nessuno incrocia il tuo percorso.
Arrivi in reparto, e con forza mastodontica ti obblighi a sorridere e a salutare i colleghi della notte che stanchi, ti daranno le consegne di cambio turno. Significativo e perfetto per l’occasione sembra il testo della Bandabardò, nella canzone Vento in Faccia che recita:
La mattina mi ci vuole il cardiologo
Vento in Faccia – Bandabardò
Il veterinario, una plastica facciale
Presentarsi al lavoro con tanto di dialogo brillante […]
Non di rado, guardi i colleghi e ti sorprendi come le loro facce assomiglino a quelle dei soldati di un qualche film di guerra. Li vedi stanchi, con un abbozzo di sorriso di cortesia, che si preparano a levare le tende. I loro sguardi sembrano urlare: “Ancora una volta ce l’abbimo fatta!”
Le consegne possono andare in due direzioni: La prima, è preceduta solitamente da un “Non è andata così male”, solitamente significa che tutto è rimasto stabile; La seconda possibilità è che ti si presenti un bollettino di guerra.
Una volta prese le consegne, ti attivi. Devi iniziare a riscaldare i muscoli ma sopratutto la testa. Si inizia con le classiche routine mattutine, ma sai che nel corso del turno le task diverranno sempre più complesse, confuse e numerose. Il rischio di errore è dietro l’angolo e tu senti il peso di essere l’ultima barriera di protezione tra un errore e il paziente.
Nel corso del turno, inserisci aghi sulle braccia di decine di persone, lavori con presidi potenzialmente dannosi, se usati da mani inesperte, e ti ritrovi e inserire tubi e cateteri di qualsiasi genere dovunque sia necessario.
Spesso noti che la tua figura, viene vista dai tuoi pazienti come un mostro a due facce. Una, in grado di allievare il dolore fisico, psicologico e relazionale. L’altro come diretta conseguenza delle procedure che esegui, dunque scomodo o come fonte di dolore.
Nei turni più tranquilli, riesci a portare a termine il tuo lavoro. Riesci ad organizzare buona parte dell’assistenza necessaria al tuo paziente. Nei turni meno tranquilli, sembra di essere in guerra, tra emergenze e carichi assistenziali eccessivi, che minano il tuo lato psicologico. Come un ariete da guerra che sferra i suoi colpi violentissimi sulle porte della cittadella che custodisce il tuo essere.
Personalmente, ho sempre trovato lavorare con i piccoli pazienti, incredibilmente faticoso. Non per loro, sono tutti bravissimi pazienti. La difficoltà è per lo più emotiva. Diventa impossibile talvolta, accettare che un bambino di pochi anni, possa già lottare contro il male della nostra epoca. Trovi ingiusto che a quell’età, sia già costretto ad essere sottoposto a procedure invasive, spesso dolorose. In tal caso, ogni colpo ha una via preferenziale per ferire la tua psiche e rimane come una cicatrice che diventa cheloide, estremamente sensibile ed estremamente algica.
Talvolta poi devi anche affrontare la morte, che in un ospedale non è cosi strana. Si svolgono in modo attento e delicato tutte le procedure per dare, negli ultimi momenti di permanenza del paziente nell’unità operativa, il massimo rispetto che deve essere concesso ad un essere umano che è appena spirato.
Finito il turno vorresti solo sprofondare nel letto. Speri di dormire e dimenticare almeno una percentuale di quello che è stato il tuo stress lavorativo e che in qualche modo, conserverai in un cassetto nascosto nella tua mente.
Decidi però di uscire a socializzare e vivere la tua vita. Sebbene tutto ciò che hai visto solo poche ore addietro, sei seduto ad un tavolo con gli amici a bere un drink e scherzare. Sembra per un momento di essere riuscito a staccare totalmente le due vite: quella personale e quella professionale. Ma non è così.
La testa ogni tanto va a quello che un paziente ti ha detto, e che tu per rispetto nei suoi confronti conservi nella tua psiche. Ti sei fatto carico di un suo pensiero, ed adesso lo porti con te, per sempre. Ma tu non hai solo un paziente. Ne hai decine, centinaia o migliaia. Tutti quei vissuti permangono nella tua mente. Non potrai mai rivelarli ad alcuno, perchè è un patto sacro tra infermiere e paziente e sai che permarranno li, nel fondo della tua psiche per anni.
Nel mentre ti chiedono se vuoi un secondo giro, interrompono il tuo viaggio dantesco nei cunicoli del tuo cervello, e accetti. Guardi gli altri felici e questo ti da gioia, ricominci a scherzare, entri nel discorso e speri che quei pensieri non ritornino così velocemente. Lavorare tra le sofferenze degli uomini, migliorano la tua capacità di apprezzare una serata tra amici a bere un drink. Vedi un lato positivo in tutto, sopratutto dovuto dalla tua esperienza giornaliera di ciò che molte donne e molti uomini affrontano per sopravvivere su questa terra.
Ti fai domande sulla vita, sull’essere umano. Ti chiedi quanto questa nostra razionalità abbia migliorato la nostra esistenza, ma al contempo ti poni questioni degne di essere poste ad un filosofo.
Nelle giornate migliori, ti senti fiero di ciò che fai. Di aver contribuito, anche solo in una piccola parte, di aver contribuito a migliorare l’esistenza di qualcuno. Di aver seguito scienza e coscienza per considerare l’esistenza di qualcuno, non solo un numero, un posto letto o una patologia da risolvere; ma di averla considerata come essenza unica, inimitabile e complessa.
Non ti interessa di ciò che la popolazione crede o pensa di te. Le valutazioni che apprezzi sono solo quelle dei tuoi pazienti, che hanno apprezzato ogni tua azione, mossa dall’etica e dalla tua professionalità.
Nel frattempo però, abbandoni i tuoi pensieri per rientrare in società, tra una risata ed una chiacchera, ti sei ricordato che oggi hai ricevuto il tuo stipendio. Guardi il bonifico, e ti domandi nuovamente, se ne valeva veramente la pena…