Gentile Lettore, mi scuso in anticipo per l’ennesimo articolo che parla di etica e morale nel campo delle cure, dei trattamenti e della qualità di vita dei pazienti, senza escludere la sfera psicologica degli operatori sanitari.
Introdurrei quest’analisi, dando alcune definizioni, secondo varie fonti, di “Uomo” o “Umanità”, donando un impronta più razionale possibile a questo ragionamento che spero possa far riflettere un po’ tutti:
Essere cosciente e responsabile dei propri atti, capace di distaccarsi dal mondo organico oggettivandolo e servendosene per i propri fini, e come tale soggetto di atti non immediatamente riducibili alle leggi che regolano il restante mondo fisico
Treccani – Definizione di Uomo
Mammifero caratterizzato dalla stazione eretta, dallo sviluppo straordinario del cervello, delle facoltà psichiche e dell’intelligenza, dall’uso esclusivo del linguaggio simbolico articolato e dalla conseguente capacità di fondare, trasmettere e modificare una cultura;
Dizionari – Corriere – Definizioni di Uomo
Sentimento di solidarietà umana, di comprensione e di indulgenza verso gli altri uomini
Treccani – Definizione di Umanità
Sentimento di fratellanza e solidarietà fra le persone; capacità di comprendere e condividere i sentimenti degli altri: una persona piena di umanità; trattare il prossimo con grande umanità;
Garzanti – Definizione di Umanità
Lavorare e vivere in un contesto ospedaliero e sanitario, comporta costruirsi un bagaglio di idee, esperienze e talvolta ferite che permangono nella nostra vita, come un macigno o come una ferita, che si fa più greve e sanguinolenta ogni qual volta ci si ritrova a dover affrontare situazioni, che, nella società di oggi, non siamo più abituati ad affrontare.
L’essere umano ha raggiunto livelli tecnologici e assistenziali impressionanti, che sembrano utopia, se solo guardassimo all’oggi con gli occhi di un uomo di 150 anni fa, Questo ha garantito la sopravvivenza a milioni di uomini e donne ma nel contempo ha generato un grossissimo dilemma di tipo etico e morale.
Chi lavora negli ambiti assistenziali, conosce bene le possibilità, che le nuove tecnologie, danno nel garantire la sopravvivenza di un paziente. Le modalità, la qualità e sopratutto le metodiche per garantire la vita però aprono scenari etici incredibili. In alcune situazioni o patologie è possibile mantenere l’organismo in vita, sebbene questo merito sia da dare a tecnologia e farmaci, finendo anche per soprassedere al concetto di coscienza del paziente.
Un esempio può essere il Caso Englaro, che aprì discussioni in italia per circa 17 anni. Eluana, a seguito di un incidente stradale entrò in uno stato vegetativo irreversibile che fu mantenuto per ben 17 anni.
L’11 febbraio del 2009, dall’esame autoptico effettuato su ordine della procura della Repubblica di Trieste, si evinse che la causa del decesso di Eluana Englaro fu arresto cardiaco derivante da disidratazione, compatibile quindi con il protocollo previsto e citato nella perizia. L’esame autoptico rivelò inoltre le condizioni gravemente deteriorate del fisico della donna ed in particolare dei polmoni e dell’apparato respiratorio in generale; di fatto, a causa della paresi e del prolungato decubito, i polmoni di Eluana erano irrigiditi ed ossificati e le orecchie deformate a causa delle ore trascorse distesa su un fianco. Il cervello della donna, inoltre, presentava lesioni di devastante gravità, ad ulteriore conferma che la sfortunata giovane, fin dal momento dello schianto automobilistico, aveva irreparabilmente perso le proprie funzioni cognitive e comunicative
Pagina Eluana Englaro – Wikipedia
Eluana, inconsciamente, porse dei problemi alla comunità italiana di tipo etico:
- Quando è tempo di dire basta?
- Come definiamo un limite al trattamento?
- Come possiamo accettare che la difesa alla vita, sia vastamente dettata, anche con le attuali tecnologie, che permettono ad un corpo di rimanere in vita, sebbene non sia più presente alcuna coscienza?
- Perché si continua a martoriare un corpo, quando il suo proprietario, la mente, non è più presente?
Anche a questo, anche se in estremo ritardo, ricordando i 17 anni di sofferenza della Englaro, la politica risposte con una normativa che favoriva il Testamento Biologico. Una norma definibile simbolicamente importantissima. Un piccolo passo in avanti per la definizione della propria libertà individuale anche riguardo la morte, ma comunque un grande passo per la nostra libertà.
Sicuramente non si può non citare l’Associazione Luca Coscioni, fondata da egli stesso, ed affetto da Sclerosi Laterale Amiotrofica. Nonostante la sua morte, l’Associazione si fece carico di problematiche molto importanti, quale la famosa vicenda di Dj Fabo, il ragazzo gravemente ferito in un incidente, e che chiedeva a gran voce la possibilità di mettere fine alla sua vita, dopo essere stato costretto per anni in un letto e totalmente cieco. Fu Marco Cappato, il Tesoriere della stessa Associazione Luca Coscioni, che accompagnò DJ Fabo nel suo ultimo viaggio verso la Svizzera. Marco Cappato per questo dovette subire un processo per “istigazione al suicidio”, ma fu assolto perché il fatto non sussiste.
Quale fu la colpa di Marco Cappato?
Nessuna, quello è ovvio, ed una sentenza lo conferma; egli accompagnò e sostenne Dj Fabo nelle sue scelte.
Quando è tempo di dire basta?
Riprendendo dunque le domande suddette: Quando è tempo di dire basta?
La persona ha diritto assoluto sulla propria vita, o quasi, e dunque siamo noi stessi a poter dire basta. In una situazione di fine vita, possiamo chiedere di passare al servizio palliativo, che ci può aiutare a vivere gli ultimi momenti della nostra vita senza dolore.
Un discorso chiaro e scorrevole, se non fosse per la presenza di molte difficoltà che si pongono in questo percorso. Essenzialmente, bisognerebbe prima di tutto riconoscere che siamo esseri mortali, e prendere in considerazione che un giorno o l’altro dovremo affrontare l’ultimo passo importante della nostra vita.
Avendo riconosciuto questa realtà, bisognerebbe domandarsi, fino a quanto si è disposti a provare, prima di gettare la spugna. Purtroppo, talvolta, cure e tecnologie non sono sufficienti ed ogni tentativo di trattamento, allontanerà momentaneamente e inesorabilmente il momento in cui spireremo il nostro ultimo respiro. Ma a che pro? Se non si guadagna di qualità o benessere di vita, perché sottoporsi a torture per guadagnare giorni o al massimo mesi?
Ognuno deve decidere per se stesso, facendosi consigliare dal Medico, affrontando con il massimo della serenità il discorso fine vita, seguendo il percorso proposto dal nostro specialista medico. Inoltre, non va mai dimenticato, che il vostro punto di vista, è importante, anzi importantissimo.
Quando è tempo di dire basta dunque?
Quando decidete che è tempo di dire basta…
Come definiamo un limite al trattamento?
Per gli operatori sanitari questo punto è molto difficile da affrontare. Quando è tempo per il medico di tirare una linea di demarcazione che divide trattamento e accanimento terapeutico?
Una delle risposte più complesse da dare, sopratutto per chi si confronta con gli specialisti medici, ci si rende conto, che alcuni specialisti hanno una idea di tollerabilità di alcuni trattamenti più alta di altri. Ma ovviamente esiste una definizione di base, che tutti i medici provano a rispettare, ma che talvolta la legge non sembra condividere:
L’accanimento terapeutico consiste nell’esecuzione di trattamenti di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica.
Accanimento Terapeutico – Definizione Wikipedia
Molti potranno essere oltraggiati da tali affermazioni, ma la storia ci racconta tre famosi casi riconosciuti come “Accanimento Terapeutico”: Il Caso Englaro, su descritto; Il Caso Giovanni Nuvoli, che alla fine decise di lasciarsi morire di fame e di sete, dopo che i Carabinieri avevano bloccato il medico Anestesista che lo stava per scollegare dal respiratore; Il Caso Piergiorgio Welby, che dopo non pochi dibattiti, trovò un Medico Anestesista che soddisfacesse le sue richieste di interruzione dei trattamenti.
Come si definisce dunque questo limite? Ancora una volta, è il paziente che decide, laddove però alcuni trattamenti sono assolutamente inutili, il Medico ne dovrà discutere con il Paziente, seguendo un piano coordinato e condiviso da entrambi.
Come possiamo accettare che la difesa alla vita contrasti con la difesa della qualità della vita?
Non è raro dunque affrontare situazioni dove la qualità di vita è fortemente compromessa, ma le tecnologie più moderne, garantiscono la sopravvivenza del paziente. Inoltre, capita non raramente, che alcuni di questi pazienti si ritrovano in stato vegetativo, con un macchinario che respira al posto loro.
In questo caso, quella che si segue, è una linea di profonda difesa del concetto di vita, nel senso più puro del termine, dimenticandoci purtroppo di importanti argomentazioni quali la qualità o la mancanza di sofferenza fisica o psicologica.
Chi è dunque che sceglie? Ancora una volta, siamo noi a scegliere. La nuova normativa sulle definizione delle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT) ci da “pieni poteri” su quello che vogliamo fare di noi stessi. (LINK)
Il “Do Not Resuscitate Orders”
La normativa che istituisce le DAT , come precedentemente affermato, non è completa. Essa getta solo le basi ad un lavoro di politica etica più importante e avveniristica, che il nostro paese deve avere la forza di affrontare.
Nella mia esperienza inglese, mi sono ritrovato di fronte a quello che si definisce come DNRO. (DO NOT RESUSCITATE ORDERS), un documento che lascia disposizioni, precedentemente discusse con il paziente, che porta ad essere autorizzati a non praticare alcuna manovra rianimatoria in caso di arresto cardio-respiratorio.
Che sia chiaro, non significa abbandonare a se stesso il paziente, bensì occuparsi non tanto sulla necessità di mantenerlo in vita, ma di lavorare sull’aspetto palliativo o di qualità del vissuto, e nell’eventualità di non praticare alcuna manovra rianimatoria invasiva.
Questa regolamentazione, ha portato l’intero Regno Unito, a discuterne attivamente e farlo divenire possibile tema di discussione al momento del ricovero. Un altro piccolo passo, che bisognerebbe avere il coraggio di affrontare anche qui in Italia.
Liberi fino alla fine… Sempre…
Non è raro, ritrovarsi nei reparti persone fragili, molto anziane che affetti da una particolare patologia, risultano gravemente debilitate e con pochissime probabilità di sopravvivenza, nonostante l’intervento medico o chirurgico. Talvolta l’intervento chirurgico stesso, diventa una delle cause di non sopravvivenza del paziente, che per stato di necessità, tra la scelta di morire, o di avere poche chance, opta per la seconda scelta, nonostante le sofferenze che dovrà affrontare.
La scarsa informazione mediatica e politica e il dialogo inefficace con paziente e famiglia, ci portano alla talvolta errata idea, che provare il tutto per tutto fino alla fine sia la soluzione migliore.
Ed ecco che molte persone fragili o anziane, trasportate in una barella scomoda e accomodate in un letto di ospedale, si ritrovano a vivere i loro ultimi giorni o mesi, circondati da sconosciuti, che essi siano pazienti o operatori.
Nel tempo di ricovero, che potrebbe rivelarsi l’ultimo periodo di vita rimanente, si ritrovano a dover subire manovre invasive come accessi vascolari di ogni genere, sondini naso-gastrici o sonde rettali. Le braccia e le gambe si trasformando in un quadro astrattista, puntellato e chiazzato da aghi e ematomi. Il corpo viene, operato, tagliato, mutilato e ricucito.
Il dolore diviene una costante, con cui bisogna imparare a convivere, nonostante i farmaci.
La posizione ormai obbligata nel letto diventa una tortura, un obbligo che si accetta malvolentieri.
La solitudine diviene una costrizione; l’orario di visite dei parenti, è sempre troppo limitato, rispetto al tempo che si passa da soli e non è raro trovare un paziente a rimuginare sulle scelte della propria vita, a piangere o in solenne silenzio, perduto nei suoi pensieri.
La paura di morire, diviene una compagna sempre presente accanto al letto, che si prova a scacciare via, parlando con gli operatori di passaggio, che spesso sono troppo occupati per dare il tempo necessario a garantire una sana conversazione.
In conclusione…
Ogni Essere Umano ha (o dovrebbe avere) diritto assoluto sulla propria vita, ed è necessario implementare le informazioni e il dialogo riguardo il fine vita.
Bisogna discutere e dichiarare chiaramente con il proprio medico le proprie scelte, lasciando le proprie Disposizioni Anticipate di Trattamento.
La classe politica deve riaprire le discussioni sui diritti fondamentali dell’uomo.
Inoltre bisogna potenziare i servizi di Hospice, garantendo sempre il massimo del supporto di assistenza infermieristica, medica e psicologica alle persone che hanno deciso di seguire questa strada.